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Romanzo scritto dall’autrice sud coreana Cho Nam-Joo e pubblicato dalla casa editrice La Tartaruga, è stato recentemente tradotto a inizio autunno e l’abbiamo scelto perché, essendo stato apprezzato anche negli Stati Uniti e in Canada, ci interessava comprendere le ragioni di tale fascinazione.

Testo di Marianna Zanetta, editing di Riccardo Grande.

Chi è l'autrice: Cho Nam-joo

Cho Nam-Joo è un’autrice nata nel 1978 e grazie a questo testo è salita alla ribalta internazionale. Con un background lavorativo – tra gli altri – da scrittrice televisiva, ha pubblicato Kim Ji-Young nata nel 1982 2016, in concomitanza dell’esplosione in quel paese del movimento #metoo. Come Cho stessa ha dichiarato, il libro offre diversi spunti autobiografici, in particolare in relazione alle esperienze lavorative della protagonista.

Kim Ji-Young e la malattia mentale

Il romanzo racconta la vita di una donna di nome Kim, le cui vicende ci vengono narrate esclusivamente da sguardi esterni, a partire dal momento in cui la donna sta manifestando una sorta di breakdown psicologico-emotivo. Sappiamo dalle prime pagine che Kim è da poco diventata madre e, in un misto di depressione post partum e di problematiche familiari di varia natura, sta iniziando a manifestare sintomi dissociativi.

Fin da questo momento, quindi Kim è l’oggetto dello sguardo altrui: marito, suoceri, psicologi, osservatori vari sono i veri occhi che cercano di restituirci la vita di Kim. Questo sguardo da fuori, che parte nelle prime pagine con l’osservazione del malessere psicologico, ci porta poi a ritroso nella storia della protagonista, permettendoci così di ripercorrere le tappe principali sua vita a partire dalla nascita, ai rapporti con i familiari e i fratelli, allo studio e poi il lavoro. Questo cammino a ritroso, inoltre, ci serve per ricostruire il crollo mentale di Kim e l’evoluzione successiva.

Kim è tutte noi

L’intero romanzo si gioca sull’alternarsi discriminazioni che Ji-Young subisce in quanto donna: difficoltà in famiglia, in cui viene data precedenza e preferenza al fratello minore (maschio) nonostante lei sia più grande; difficoltà a scuola, in cui le ragazze vengono obbligate a tenere un codice d’abbigliamento più stringente rispetto ai compagni maschi; difficoltà all’università, nel percorso accademico e nelle relazioni di coppia, e poi nel mondo lavorativo. Difficoltà, infine, nel rapporto con il marito.

Il mosaico che ne ricaviamo è quello di una vita senza troppi traumi, senza perdite laceranti, con incontri avvilenti che si susseguono a incontri costruttivi: insomma, l’esperienza di Kim è nella media, non ci sono mai episodi particolarmente eclatanti da renderla fuori dall’ordinario.  Ed è proprio questo che rende la sua esperienza così condivisa e comprensibile a milioni di donne nel mondo. Tutte (in Corea del Sud, ma non solo) potremmo essere Kim.

È una donna che cammina quieta nel suo mondo, che vede le discriminazioni e tenta a modo suo di resistere, che – finché può – prova ad opporsi alle pressioni della società e che, allo stesso tempo, cerca di ritrovare un proprio cammino nonostante la discriminazione costante che è costretta a patire nel corso della vita. Finché può: poi arriva il figlio, e Kim diventa madre. Ogni tentativo di resistenza diventa vano. La gravidanza mette Kim davanti al marito: in uno scambio che non è mai aggressivo o violento, l’uomo non si pone neanche il problema delle rinunce che la donna dovrà affrontare, non si pone neanche il problema se dovrà essere solo lei ad affrontarle. Non sarà infatti lui ad abbandonare il lavoro e ogni sogno di carriera. Nessuna ombra di dubbio: Kim diventerà madre, il suo lavoro è meno remunerativo, quindi il problema – per lui – non esiste. Ed è qui che la linea retta (seppur faticosa) su cui Kim si era mossa inizia a saltellare. La dissociazione che arriva (e con cui abbiamo aperto il romanzo) sembra l’unico modo con cui Kim riesce a prendersi cura di se stessa e dar voce alla propria rabbia e alle proprie frustrazioni: anche lei parlando in terza persona.

In queste dinamiche di genere si apre anche uno spazio significativo per il confronto tra la tradizione culturale e l’imponente sviluppo economico che la Corea del Sud ha vissuto a partire proprio dagli anni ’80; un periodo che arriva dopo la dittatura militare e che dunque vede un’impennata dei consumi e una trasformazione di alcune dinamiche sociali, nelle quali tuttavia la donna si trova sempre in difficoltà e in una condizione di inferiorità.

Non vorrei raccontare troppi passaggi perché è interessante leggerli direttamente: all’apparenza banali esperienze quotidiane, sono in realtà la verità di buona parte della popolazione femminile (per lo meno tra le donne che conosco). Non è quindi tanto l’originalità della storia a colpire, quanto la pervasività di questi eventi e l’universalità di queste problematiche.

Un appunto che è stato fatto notare spesso: il cognome della protagonista, Kim, è il più diffuso in Corea, mentre Ji-Young è il nome più utilizzato nel 1982. La scelta di un nome così banale è una dichiarazione d’intenti; questa donna, che abbiamo individualizzato in Kim Ji-Young, in realtà è l’emblema di tutte le donne della sua epoca, una sorta di modello in cui tante altre donne possono rispecchiarsi. Ji-Young è la donna qualunque, la donna che tutte noi potremmo essere, la donna che tutti noi potremmo conoscere.