Okazaki è, per quanto ho percepito sul momento, una città di media grandezza, disposta su colline ondulate e attraversata da un fiume (il fiume Yahagi). Abituata alle città europee, e in particolare italiane, la prima cosa che mi è venuta da fare è stata quella di cercare un centro, un nucleo (magari più storico, più popolato, che so..) dove si snodasse la vita cittadina: è un errore che ho fatto anche in seguito.
Okazaki: l’impatto visivo
Viene difficile (per chi come me è abituato alla simmetria di una città romana) orientarsi nelle città giapponesi, non perché siano tutte monumentali metropoli o perché abbiano percorsi stradali particolarmente complessi. E’ più una percezione di, come dire, dispersione. È la sensazione che la città si srotoli sul territorio senza individuare in modo troppo marcato un centro e una periferia, ma piuttosto un susseguirsi di nuclei, ognuno dei quali ha le sue caratteristiche e i suoi movimenti.
La conseguenza per me è stata che una città come Okazaki, di meno di 400.000 abitanti, mi è sembrata sterminata quasi come Torino. Okazaki offre anche (a mio avviso, chiaramente) un’ottima rappresentazione visiva della città media giapponese: prima di partire, ho ricevuto email deluse e amareggiate dalle mie connazionali che atterrando in Giappone non avevano trovato le case di legno con i tetti spioventi e i cancelli di legno. Ricordo nettamente un’osservazione in particolare “qui è tutto prefabbricato e decadente. Davvero triste.” Vorrei recuperare quell’email per riuscire a trasmettere il tono di delusione.
Okazaki offre anche (a mio avviso, chiaramente) un’ottima rappresentazione visiva della città media giapponese.
Non è certo mio lavoro difendere i gusti e le scelte architettoniche della popolazione giapponese, ma probabilmente ritenere di trovarsi scaraventati come per magia nel set di Memorie di una Geisha poteva essere in effetti un azzardo eccessivo. E non voglio nemmeno fare la saccente che dice “io sapevo cosa avrei trovato”, perché di solito il secchione è un personaggio antipatico. Quindi non dirò che sapevo cosa avrei trovato, anche perché in parte non sarebbe onesto. Però immaginavo abbastanza lucidamente cosa non avrei trovato. Sapevo che non sarei atterrata nel Giappone dell’era Meiji, con le sue stradine piccole e sterrate, con i rickshaw che corrono tra la folla e con le costruzioni basse di legno con le porte scorrevoli. Sapevo che, salvo luoghi e anfratti particolari, mi sarei trovata in un mondo contemporaneo, quasi post-contemporaneo, dove la praticità e la necessità di funzionalità era l’esigenza principale.
E in effetti Okazaki rispecchiava in qualche misura le mie aspettative: la maggioranza della visuale è assorbita da palazzi moderni di media altezza, quadrati, e non sempre ordinati. Le insegne pubblicitarie dominano le strade e i tetti dei grattacieli più alti, colorate e forse invadenti ma salvifiche in un luogo in cui perdere l’orientamento è facile come bere un bicchier d’acqua. Direi che a volte sono addirittura rassicuranti, perché marcano il cammino verso luoghi specifici, e segnalano che si sta procedendo sulla direzione giusta. Accanto ai palazzi moderni, che chiameremmo in stile occidentale (quasi cameratesco), compaiono villette monofamiliari; sono strette, con piccoli giardini all’ingresso, due piani con finestre non troppo grandi, e qualcosa di disordinato nella sensazione. Alcune hanno tettoie fatte su misura al centimetro per le macchine familiari, nelle quali il parcheggio diventa un’arte e una sfida.
Un ricordo molto vivido che ho di Okazaki, probabilmente perché era lungo il tragitto dal dormitorio alla scuola accanto al bosco che costeggia la strada, è il piccolo cimitero sdraiato tra le suddette villettine; un luogo silenzioso (come il resto del quartiere, d’altronde) pulito, e quasi accogliente, dove ogni tanto qualcuno di fermava a posare dei fiori sulle pietre tombali grigio scure. Non è circondato da mura; è strano per noi italiani, abituati a percepire i cimiteri quasi come terre proibite dove entrare solo con cautela, attraverso pesanti mura e cancelli di ferro. Qui l’accesso è libero, nel senso che convive con il flusso quotidiano di vita, tra una fermata dell’autobus e l’accesso a un negozio. Il cimitero è coinvolto negli affari dei vivi, e questo mi ha donato un’immensa sensazione di conforto, non saprei dire perché, forse perché mi sembrava che ci potesse essere una sorta di filo diretto tra noi e loro, e una maggiore volontà di mantenerli coinvolti nella nostra vita. In effetti, a pensarci ora, forse quel piccolo cimitero di Okazaki è stato il primo luogo in cui ho percepito che la morte qui in giappone è un affare diverso.
Forse quel piccolo cimitero di Okazaki è stato il primo luogo in cui ho percepito che la morte qui in Giappone è un affare diverso
Jidohanbaiki: amore a prima vista
Okazaki mi ha anche svelato un piacere molto più profano, che tuttavia mi ha seguito in ogni singolo viaggio, spostamento e movimento in giappone: l’amore per le Jido-hanbaiki, i distributori automatiche di bibite. Ora, ricordiamoci che sono stata catapultata in giappone probabilmente nella stagione peggiore, nel caldo umido della piena estate, e forse proprio per questo ho saputo apprezzare la presenza salvifica di questi scatoloni quadrati. Illuminati quasi ad ogni angolo di strada, con le bibite coloratissime e piene di scritte in kanij e kana, in fila ordinata una sotto l’altra (ora quelli più nuovi hanno un display touchscreen), queste presenze rappresentavano il conforto più immediato dal caldo e dal sudore terribile di quei mesi; duecento yen, e come per magia il freddo liquido calava a reidratare un corpo, il mio ovviamente, sofferente per le ondate di calore (è giusto ricordare di nuovo quanto io odi il caldo). Un refrigerio a portata di mano, giorno e notte, per strada o all’interno dei parchi. Ode alle jido-hanbaiki.
Un refrigerio a portata di mano, giorno e notte, per strada o all’interno dei parchi. Ode alle jido-hanbaiki.
Pur ricordando Okazaki con affetto ed emozione (era comunque il mio Giappone), durante la settimana fremevo per il weekend, che mi permetteva di visitare altri luoghi, luoghi che promettevano di rivelarmi i misteri di quella terra.