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Arrivare a Mutsu dopo dieci giorni di Tokyo non può che essere descritto come uno shock. Visivo, in primo luogo. Il viaggio implica tre trasferimenti ferroviari, che danno la sensazione di perdere mano a mano un pezzo di modernità dietro di sè; abbandonato lo shinkansen che porta da Tokyo ad Hachinohe in tre ore scarse, si sale su un treno locale, romanticamente più piccolo e antico, fino a lasciarsi anche questo alle spalle per salire sull’ultimo mezzo, un minuscolo trenino a due vagoni che porta finalmente a destinazione.

Estratto dal diario di campo “Tra campi e montagne”

Anche il panorama segue la stessa traiettoria, come se lentamente si spogliasse di tutto quanto è la contemporaneità. Poi l’arrivo a Mutsu, in una città che le cifre non possono che considerare piccola, ma di cui è complicato stabilire l’esatta dimensione, e la cui sagoma sembra spalmata su quanto più territorio possibile, come troppo poco burro su una fetta biscottata: risultato, desolazione. Nella forma della sensazione di essere soli in un luogo solitario. Un luogo che conosce solo in parte le luci della modernità accecante di Tokyo, nei Kombini aperti tutti i giorni 24 ore al giorno, e negli enormi centri commerciali che sembrano rappresentare strane oasi abitate.

Il resto è silenzio. Non dovrebbe sorprendermi, anche Tokyo è silenziosa. Ma qui il silenzio è diverso. È il silenzio del lontano.

Anche Tokyo è silenziosa. Ma qui il silenzio è diverso. È il silenzio del lontano.

Dopo aver posato le stanche ossa in uno degli hotel all’occidentale della città, ci incamminiamo con molta fiducia alla ricerca di cibo, e incappiamo in una stradina che sembra uscita da un manga di Rumiko Takahashi, con localini piccoli, passaggi strettissimi a ridosso delle case e gatti curiosi in attesa davanti alle cucine dei ristoranti.

È la sera che precede il nostro incontro con l’itako, Nakamura-san. Le sensazioni sono miste: ansia in primo luogo, ma è naturale, con tutte le aspettative che si maturano, e con la poca esperienza accumulata. Dubbi sulle mie capacità di gestire la situazione, e il terrore di uscirne con una figura misera. Ho le domande preparate, ma non so che genere di persona aspettarmi.

La prima itako

Il giorno dopo, dopo aver incontrato la nostra interprete, ci dirigiamo in macchina verso la casa dell’itako. La macchina di lusso ci conduce con il navigatore per le varie strade della città, che a giudicare dal tempo impiegato per giungere a destinazione, sembra immensa. Mano a mano, la città si dirada, se mai è ancora possibile, e ci inoltriamo nelle prime aree di montagna. Arriviamo infine dinnanzi alla casa.

Una casa piccola e pulita, anche se sul momento son troppo emozionata per rendermi conto di tutti i dettagli. Aya, l’interprete, si fa avanti, e bussa alla porta, mentre noi rimaniamo indietro a recuperare le nostre attrezzature, e forse il nostro coraggio. Appena mi incammino verso la porta, vedo la figura di una donnina, di statura minuta, con corti capelli permanentati, e accuratamente pettinati, e con una veste bianca in perfetto ordine. Non vede, non vede assolutamente nulla, gli occhi rimangono chiusi, ma il sorriso è immenso. Aperto, semplice. Non posso credere che sia lei, e invece è proprio l’itako che tanto ho inseguito.

Non vede, non vede assolutamente nulla, gli occhi rimangono chiusi, ma il sorriso è immenso

Come Aya ci fa capire, Nakamura-san ci sta invitando ad entrare. Entriamo in casa sua, mentre lei e Aya continuano a parlare, con la deferenza di chi entra in un luogo sacro. Non riesco ad osservare troppo accuratamente l’interno della casa, ma sembra chiaramente un’abitazione giapponese tradizionale, con le porte scorrevoli che si susseguono per un lungo corridoio.

Meeting an Itako: Nakamura-san

Nakamura-san ci fa entrare in una stanza collocata subito di fronte all’ingresso, dove in un’alcova è ricavato uno spazio per un altare, dove sono collocati, tra i vari oggetti del mestiere e simboli di divinità*, le offerte di cibo e bevande, ritengo probabilmente portate dai vari clienti.

Una volta che ci siamo accomodati sul tatami, Aya inizia a spiegare a Nakamura-san il motivo della nostra visita; il dialogo è interrotto solo da risatine quasi godute dell’anziana sciamane, e delle sue innegabili difficoltà di udito. Riusciamo comunque a spiegare il nostro lavoro e i nostri obiettivi, e lei accetta senza remore di eseguire per noi un kuchiyose, e di rispondere ad una breve intervista subito dopo.

Durante tutto il dialogo tra le due, non riesco a smettere di osservarla. È seduta nella postura tipica giapponese, con le gambe sotto i glutei, ed è incurvata in avanti verso Aya, per sentire meglio cosa le dice, tiene le mani una nell’altra, con una femminilità che mi colpisce, e che non mi aspettavo, e sorride come solo le persone che hanno avuto una vita diversa sanno fare.

Il rituale ha inizio

Mentre io accumulo questi pensieri nella mia mente, Nakamura-san si prepara per il rituale nel quale invocherà il nonno della mia interprete. Prende il grosso e rumoroso sonaglio delle itako, indossa il rotolo della propria affiliazione* e beve un sorso di aranciata per schiarirsi la gola e preparsi al tutto.

Chiede alcune informazioni specifiche ad Aya, e tra varie e innegabilmente divertenti confusioni e incomprensioni, riesce alla fine a raccimolare tutto ciò che le serve per contattare il defunto giusto.

Poi, silenzio.

Gong. Fine del silenzio. Inizia il rituale.

Una lunga nenia, in cui invoca divinità di varia natura che la aiutino a invocare il defunto. Preghiere perchè il defunto accetti di parlare con la propria nipote. Poi la nenia cambia leggermente, dando ora spazio alle parole del defunto che parla attraverso la voce della sciamana. Preghiere, ringraziamenti, riconoscenza, ricordo e memorie.

La nenia cambia leggermente, dando ora spazio alle parole del defunto che parla attraverso la voce della sciamana

La cerimonia dura in tutto circa mezz’ora. È più lunga di quanto credessi, anche considerando che la mia interprete non ha cercato molta interazione con il proprio defunto, e ha lasciato azione unicamente alla sciamana.

Al termine della cerimonia, lasciamo passare alcuni minuti di convenevoli e ringraziamenti, poi, visto che Nakamura-san sembra ancora disposta a continuare con l’intervista, passo ad Aya il foglio con le domande, e iniziamo.

Chiacchierando con la sciamana

L’intervista è piacevole. Nakamura san da la sensazione di aver molta voglia di raccontare la propria storia, e ci riporta in maniera piuttosto approfondita, per essere un primo incontro, la sua prima infanzia e il suo percorso iniziatico. Proviamo a spingere le domande su un piano più filosofico, ma la sensazione è che non sia il suo terreno preferito, e le risposte sono più vaghe, chissà se corrispondono a un sentire suo personale, a un disinteresse per l’argomento, o a una ignoranza sulla questione. Più volte infatti riporta l’argomento sul privato, superando anche l’interruzione di una divertentissima telefonata di un cliente che voleva un appuntamento, e che è stato liquidato con gentilissima rapidità. I clienti successivi sono già alla porta, e dai movimenti di passi sembrano non troppo contenti del fatto che stiamo trattenendo in chiacchiere la loro sciamana, eppure troviamo difficile interrompere il dialogo. Alla fine, non possiamo fare altro che ringraziare immensamente l’anziana signora che è stata così ben disposta nei nostri confronti, e togliere il distorbo, lasciandole fare il suo lavoro.

Usciamo, e saliamo in macchina, alla ricerca di un caffè dove fare un sunto dell’incontro. Sono felice, e leggera, anche io come Nakamura-san non riesco a smettere di sorridere.

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