Il 2008 è un anno molto lontano, troppo per raccontarlo nei dettagli. Dieci anni in effetti. È un ricordo sfocato della mia prima volta con il Giappone. Voglio provare a recuperare nei meandri dei ricordi quante più sensazioni e immagini sono ancora presenti, e dare un senso a questo inizio.
Estratto dal diario di campo “Tra canti e montagne”
La prima volta in Giappone
Il mio primo viaggio in Giappone è stato un soggiorno studio di circa 6 settimane a cavallo tra il luglio e l’agosto del 2008, quasi dieci anni fa, nella città di Okazaki, una località a breve distanza da Nagoya (nella prefettura di Aichi). Avevo iniziato lo studio della lingua giapponese l’anno prima, e mi sembrava il momento migliore, dopo un anno di duro studio, per poter finalmente mettere piede in terra giapponese, per me una sorta di disneyland fin dai miei dieci anni (tornerò su questa fascinazione in seguito). Con l’aiuto della mia insegnante, ho iniziato a pianificare il mio viaggio (più o meno da febbraio in avanti, più per l’emozione che per un’effettiva esigenza logistica), con il preciso intento di avere spazio a sufficienza per qualche giro di scoperta negli spazi lasciati dalla scuola. La scuola scelta era pertanto organizzata e localizzata in modo tale da permettermi gite fuori porta ogni fine settimana in diverse aree significative del Giappone.
Volando dall’altra parte del mondo
Ho vaghi ricordi del momento in cui ho messo piede sull’aereo: era notte (non è vero, era mattina, ma molto presto, quindi quasi notte), avevo passato la serata a preparare la valigia con mia mamma che mi aiutava e il mio cane che dimostrava il suo dissenso collocandosi all’interno del trolley, mentre il mio fidanzato del tempo provava a dormire qualche ora prima di accompagnarmi in macchina nel buio fino all’aeroporto di Milano (vivo a Torino, per cui si tratta circa di un’ora di macchina). Nella nebbia del sonno (non sono certo una persona mattiniera) ricordo l’immagine dello schermo al gate di imbarco: destinazione Tokyo. Mi sembrava surreale. Poiché nonostante la preparazione anticipata avevo prenotato il volo solo a maggio, il prezzo del biglietto era più alto del dovuto, per cui anziché volare direttamente su Nagoya, avevo ripiegato su un volo verso Tokyo, per poi spostarmi a sud in treno (treni per l’esattezza). Tokyo è stato il mio primo volo intercontinentale; forse l’unico durante il quale non mi sia annoiata, forse perché ero troppo emozionata all’idea di essere effettivamente in cammino verso la mia Mecca. Non ho neanche sfruttato i sedili vuoti accanto a me, cosa che ho fortissimamente rimpianto nei voli a venire, e ho forse dormito una o due ore in tutto. Grosso errore, ma inevitabile.
Atterraggio nella terra del Sole Nascente
Narita mi ha accolto silenzioso, e dopo aver recuperato la mia valigia mi sono subito incamminata verso i treni: il tragitto previsto era Narita express per Tokyo centro, Shinkansen per Nagoya, e regionale per Okazaki, in pratica il viaggio della speranza. Due cose non avevo considerato: il sonno (più di 24 ore senza dormire iniziavano a farsi sentire) e il caldo. Soprattutto il caldo. Luglio in Giappone è quanto climaticamente più si avvicina all’inferno: un caldo umido che non da tregua, dalle 7 di mattino fino a sera inoltrata, che si attacca alla pelle e ti succhia via ogni goccia di liquidi presente nel corpo (si, soffro il caldo, ma sfido chiunque a muoversi con scioltezza in quel clima). Il caldo è intervallato da violenti getti di aria condizionata che ti assalgono nel momento in cui metti piede dentro un qualsiasi locale chiuso (treno, bagno, ristorante, negozio, poco importa) e che ti sembra al contempo la scoperta più bella dell’umanità e la peggiore maledizione che potessero lanciare sulla tua cervicale (nonostante gli allora 24 anni). Immaginate quindi una pischella sprovveduta che si trascina due valigie e uno zaino attraverso le stazioni di Narita e di Tokyo, lucida come una saponetta e pronta a svenire al primo sgabello libero. Fatemi dire una cosa in più: un anno di giapponese non ti prepara ad affrontare l’impatto visivo di scorgere ideogrammi ovunque, e solo in seconda battuta trovare qualche indicazione in alfabeto latino, né tantomeno all’impatto sonoro di sentire una lingua fino a quel momento ascoltata praticamente al rallentatore per poter imparare le frasi di sopravvivenza. I miei successi accademici negli esami di giapponese sembravano in quel momento una barzelletta (“hai superato l’esame del primo anno? Che brava, vediamo allora come te la cavi qui!”).
[ctt template=”11″ link=”FtGz4″ via=”yes” ]Fatemi dire una cosa in più: un anno di giapponese non ti prepara ad affrontare l’impatto visivo di scorgere ideogrammi ovunque. @EmmezArt[/ctt]Certo, descritta così sembra mi sia trovata a sopravvivere in un mondo alla rovescia. Sicuramente non era così drammatica la situazione, ma in quel preciso momento non mi sembrava certo più facile, con il sonno che piombava appena mi sedevo nel fresco dell’aria condizionata del vagone e con il terrore di perdere la fermata giusta perché avevo letto o sentito male.