Ricordo il primo viaggio verso Nagoya, nel caldo di un weekend di luglio (cercare la data dalle foto): siamo partite in quattro, con lo scopo di raggiungere il castello di Nagoya e poi fare una passeggiata senza meta nella città.
Nagoya in Estate
Non sto a ripetermi sul caldo mortale, che rende ancora più sorprendenti gli abbigliamenti delle donne (giovani e meno giovani) che incontriamo sulla nostra strada: signore con golfini a maniche lunghe, ragazze con minigonne e stivali di pelo, braccia spesso coperte da lunghi guanti bianchi, in un misto tra curiosi dettami di moda e impellenza di proteggere la pelle da qualsiasi abbronzatura. Nota costante l’ombrello parasole, oggetto il cui utilizzo è in effetti salvifico, come ho imparato qualche anno dopo, non tanto per una questione di candore cutaneo ma per la protezione della testa dal calore assordante. Per me, che sopravvivo a malapena in una canotta estiva quasi da mare (cosa che tra l’altro probabilmente mi causa i giudizi negativi di stile da parte delle fanciulle locali), mantenere un abbigliamento così completo e coprente ha dell’eroico. Come gli uomini in giacca e cravatta che sudano l’anima in ogni trasferimento da metro a ufficio o da ufficio a casa. Queste riflessioni mi occupano la testa durante tutto il tragitto (percorso rigorosamente a piedi) dalla stazione di Nagoya al castello, il mio secondo castello giapponese dopo quello di Okazaki (collocato su un’altura e circondato dal fiume, ma di dimensioni più ridotte)
Un po’ di storia
Nagoya è storicamente una città molto importante perché è la città natale della famiglia Tokugawa, fondatrice del grande bakufu giapponese che ha governato il paese fino all’era meiji. Tokugawa Ieyasu, il capostipite, compare più volte sulla strada che conduce al castello, e nel parco circostante: (rimandi alla storia) il castello stesso mantiene al suo interno delle parti con fedeli ricostruzioni dell’arredamento e della struttura antiche, con riferimenti agli stili di vita dell’era moderna. Dal punto più alto del castello, invece, si apre la vista sull’intera città, oggi rinomata a livello internazionale come sede dell’industria automobilistica Toyota. Quando la fame diventa importante, abbandoniamo il percorso culturale per andare alla ricerca di percorsi meno elevati ma più soddisfacenti, e ci infialiamo in un’area commerciale (Ōsu – Naka ward) dove negozi di abbigliamento sono intervallati da locali alimentari; è già abbastanza tardi, circa le 3 del pomeriggio, e a dispetto della diffidenza di alcune co-viaggiatrici, non ci perdiamo in troppe ricerche e ci infiliamo nel primo ristorante (di cucina cinese) che troviamo sulla strada. La signora all’interno si offre di sfamarci nonostante l’ora, e ci propone quella che probabilmente è stata la mia prima esperienza con il ramen, una ciotola di brodo caldo con nuddles, carne e vari altri alimenti, tra cui l’aglio, molto diffuso come street food in tutto il Giappone, in numerose varianti. Non sono una fan, ma la fame era intensa e il piatto è stato svuotato in pochi minuti.
Vagando per i templi di Nagoya
Dopo una pausa riflessiva post abbuffata, cercando di riprendere fiato dal caldo pomeridiano, ci siamo poi dirette verso due templi della zona, uno buddhista e uno shintoista. Mentre del primo (Ōsu Kannon, della setta Shingon) ricordo il tripudio di rossi, arancioni, e bandiere esposte a sventolare, il secondo (Atsuta Shrine熱田神宮 Atsuta-jingū) era dominato dal silenzio del bosco e degli alberi, in un’atmosfera quasi fresca e intima in mezzo alla natura (e alle zanzare che hanno ampiamente banchettato sulle mie gambe); la tradizione vuole che proprio all’interno di questi due templi sia custodito uno dei tre tesori dell’imperatore (la spada) e che pertanto sia un luogo di notevole importanza nei culti e nelle pratiche shintoiste.
Ricordo la fascinazione per quel luogo, e quella che da allora è stata la mia predilezione per i luoghi di culto shintoisti, che mi sembravano più sobri, più accoglienti, rispetto alla loro controparte buddhista: questo non per negare la bellezza che molti templi offrono, e che anzi spesso sorpassa quella dei santuari shinto, ma perchè la diversa struttura di questi ultimi, di solito disseminati in vari edifici all’interno di un ambiente naturale come un bosco o una montagna, mi è sempre sembrato più rassicurante e per certi versi onesto, anzi forse più intimo e privato. Ho sperimentato la stessa sensazione di accoglienza durante la mia visita a Ise, ma ne parlerò più avanti.
Ricordo la fascinazione per quel luogo, da cui la mia predilezione per i luoghi di culto shintoisti che mi sembravano più sobri, più accoglienti, rispetto alla loro controparte buddhista
Il ritorno a casa è stato, come sempre quando si è stanchi, più lungo e faticoso dell’andata. Il desiderio dominante era di distendermi nella mia sobria stanzetta con il bocchettone dell’aria condizionata sulle gambe, a sfregio di qualsiasi possibile malanno, mentre mi gustavo un sushi takeaway del supermercato vicino.