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Questo libro mi aspettava già da un paio di anni.

È un volume di 240 pagine di Rachel Khong, autrice statunitense nata in Malesia da una famiglia di origine Malesiane-cinesi. NN Editore l’ha portata in Italia con la traduzione di Silvia Rota Sperti.

Una confessione di partenza, così di getto: la copertina per me è parte integrante dell’esperienza della lettura. Può essere un motivo in più di amore per un romanzo, ma allo stesso tempo posso passare sopra a una copertina mediocre solo se il romanzo mi ha completamente conquistata.

Bye bye vitamine! ha una copertina splendida. Eppure, per sviste e fatiche lavorative, è rimasto a lungo nella pila dei miei “Da leggere”. Per fortuna, a un certo punto quella bellezza ha vinto e mi ha convinto a buttarmi tra queste pagine. Pagine che ho divorato, in poco più di un giorno.

Ruth e la scomparsa del ricordo

Siamo negli Stati Uniti, una famiglia composta da padre, madre e due figli. Ruth, voce narrante del romanzo, ci porta nella sua intimità familiare fatta di ricordi complessi, di fughe e di tentativi di indipendenza. Fino a quando scopre che il padre, professore universitario, è malato di Alzheimer, e la madre le chiede aiuto a gestire un uomo che diventa altro, giorno dopo giorno.

Nelle pagine, immaginate come un diario, seguiamo la quotidianità di circa un anno di questa famiglia dove banali vicende ordinarie si intrecciano al trauma e al dramma della malattia. Il dramma di un padre che lentamente scivola via, di cui si scoprono fuori tempo massimo vizi ed errori che si vorrebbe – quelli sì – dimenticare. Il dramma di una famiglia che fa i conti con un lutto di molto precedente la morte della persona amata. Non è però un racconto di autocommiserazione su una malattia degenerativa: è una riscoperta familiare attraverso ricordi che ritornano nelle pagine scritte dal padre, e nelle chiacchiere sussurrate dalla madre. Mentre la mente del padre si offusca sempre più, e il non ricordo prevale, le parole prendono altre valenze, e l’attenzione si concentra sull’unico tempo che in fondo ci è concesso: il presente.

Il tema raccontato potrebbe essere terribilmente respingente, dolorosissimo da guardare: eppure, lo stile dell’autrice, con la sua pulizia, la sua ironia e il piccolo universo di personaggi che anima le pagine, riesce a commuovere e a tradurre in maniera intellegibile un dolore difficile da disegnare.

E lo fa raccontandoci soprattutto rapporti profondamente umani: quello tra padre e figlia, fatto da amore e adorazione e così profondamente distante da quello tra lo stesso padre e l’altro figlio. Il rapporto tra fratelli, ormai adulti liberi di non esserci, eppure in fondo legati dall’affetto reciproco. Il rapporto tra una figlia e la madre, e insieme con le ingiustizie e i tradimenti che negli anni vengono alla luce: Perché sei rimasta? Sembra chiedere la figlia. Perché poi è stato troppo tardi, sembra rispondere la madre.

Una vita ordinaria, con relazioni imperfette e spigolose ma cariche di amore, o per lo meno del suo ricordo.
Una vita ordinaria, con un ordinario destino di sofferenza – e di cura.

Ho preso in mano questo libro temendo più sofferenza di quanto avrei accettato. La sofferenza c’è stata, ma ho chiuso il libro con un’inattesa sensazione di calore.

Con la sensazione che forse, anche se nel tempo e con fatica, si possa ritrovare l’affetto e il desiderio dell’altro.