Forse possiamo dirlo: l’ultimo libro di Murata è stato un “caso” letterario, tanto da suscitare curiosità anche al di fuori dei soliti circoli nippofili. Se leggete il riassunto che l’editore vi propone nell’aletta, avrete la sensazione di trovarvi in un romanzo di fantascienza, con una ragazzina di 11 anni armata di bacchetta magica, specchietto anch’esso magico e un animaletto che in realtà è un alieno, pronta a compiere eroiche imprese per salvare il pianeta Terra.
Non credete a nulla di quello che quest’introduzione vi dice.
Il trauma della solitudine
La protagonista in effetti è una ragazzina di 11 anni, Natsuki, che ci racconta la sua esperienza in prima persona e che traduce attraverso il suo sguardo una realtà fatta di dolore. La prima parte del romanzo segue alcuni anni della sua infanzia, durante i quali Natsuki ci racconta di possedere dei poteri magici grazie all’intervento di Piyut, un animaletto (di peluche?) arrivato da un pianeta lontano, il pianeta Papipinpobopia; la bambina sarebbe infatti stata scelta dall’alieno per compiere un’importante missione, salvare la Terra. Natsuki si premura di farci conoscere i suoi poteri magici: scomparire, non essere vista né sentita o nascondersi nel suo mondo e quindi far scomparire la realtà circostante. Sicuramente molto facile per noi – persone adulte – leggere oltre il codice simbolico di queste magie: la ragazzina vive con una madre frustrata, una sorella – problematica e insopportabile fan dalle prime pagine – e un padre quasi del tutto assente. Madre e padre sembrano assorbiti esclusivamente dalla sorella – vittima di bullismo a scuola – e sembrano dimenticare costantemente Natsuki, o peggio, di provare fastidio nei suoi confronti.
Ogni anno questa famiglia tristemente normale si ritrova insieme a tutti i fratelli e cugini nelle montagne natie, in visita al nonno e alla nonna paterni. Natsuki ci dice che questo è il suo unico momento di gioia, perché in questo ritrovo di famiglia ha occasione di vedere il cugino Yu, più o meno coetaneo, che come lei proviene da una famiglia disastrata – il padre se n’è andato lasciandolo da solo con una madre instabile – e che è segretamente convinto di essere un alieno. Natsuki e Yu sono due bambini soli, molto distanti dalle rispettive famiglie, che non fanno neanche lo sforzo di provare a guardarli davvero: in questa loro solitudine, trovano tra loro un legame fortissimo che sfocia in un “fidanzamento”.
Il momento spartiacque nel romanzo vede Yu e Natsuki in intimità e scoperti dalla famiglia; quest’evento segna la cesura tra un prima e un dopo, tra un momento in cui la bambina ha un appiglio, un affetto molto forte, qualcuno che crede in lei e che le vuole bene a un altro in cui lei si ritrova nuovamente sola, vittima di una serie di ingiustizie, delle quali viene ingiustamente accusata e ritenuta colpevole solo perché è quella strana, quella diversa, quella che vuole attirare l’attenzione e quella che si ritrova isolata dalla propria famiglia.
Il rifiuto della società
La seconda parte del romanzo si apre con una Natsuki adulta, più o meno 30enne, che ci svela come i suoi poteri oramai non funzionino più. La donna racconta inoltre di aver trovato un marito per vie inusuali, e di aver stabilito fin da subito alcune regole riguardanti la loro sfera relazionale, sentimentale e sessuale.
Tomohiko, il marito, è il terzo vertice di un triangolo surreale che sta per crearsi: personaggio tormentato dai terribili ricordi della propria infanzia – con accenni di abusi da parte della madre – vive eludendo qualsiasi tipo di intimità fisica ed emotiva con un’altra persona. Convinto di trovarsi prigioniero in una sorta di grande fabbrica, un ingranaggio sociale che obbliga tutti gli individui a procreare, vive con il timore di essere inglobato e obbligato a generare figli.
In un’atmosfera che ricorda a tratti quella di La fabbrica (Oyamada) Natsuki e Tomohiko interagiscono serenamente nelle loro angoscianti visioni del mondo, in una quiete che si incrina quando torna in scena Yu. Dall’evento traumatico dell’infanzia, Natsuki non ha più rivisto il cugino. Ma un giorno, per una serie di eventi messa in moto da Tomohiko, Yu irrompe nelle loro vite, e cambia la direzione della storia. Mentre le relazioni tra i tre individui si articolano in modo sorprendente, i due uomini sembrano stimolare le reciproche fobie e allucinazioni, trascinando Natsuko in un vortice rapidissimo, finché la vicenda collassa. Quasi all’improvviso si verifica un distacco volontario e consapevole da tutto ciò che è un contesto sociale, da tutto ciò che impone delle regole, delle norme, delle appartenenze, in una discesa verso l’abbattimento dei più grandi tabù sociali.
Il romanzo finisce forse nell’unico modo possibile – su cui tuttavia ho alcune riserve: mi sarebbe piaciuto vedere le estreme conseguenze (ancora più estreme) di questa discesa nella follia, mi sarebbe piaciuto assistere al crollo totale delle dinamiche familiari e alla totale rivalsa contro le norme sociali. Ancora più in fondo. Invece finisce offrendo una soluzione che, probabilmente, è l’unica credibile.
Dove gli adulti falliscono
Lo consiglio? Assolutamente. Lo racconterei come un silenzio urlo interno contro una certa modernità. Un urlo che qui risuona di nomi giapponesi ma che, probabilmente, potrebbe rieccheggiare anche in altri mondi perché racconta della solitudine, della difficoltà infantile di sopravvivere in una famiglia disfunzionale, dell’impossibilità di trovare un nido sicuro per il proprio cuore. E c’è un desiderio famelico di sfuggire alle crudeli logiche sociali, di non lasciarsi impigliare nelle maglie e negli obblighi familiari che sembrano destinati a ogni singola persona, senza via di scampo.
Personalmente nel romanzo ho vissuto due atmosfere diverse. Ho sofferto molto nella prima parte: l’ho trovata estremamente scorrevole, ma tremendamente dolorosa, al punto da dover chiudere il libro per prendere fiato. Ho vissuto una profonda tristezza: per la fragilità della bambina e per la crudeltà della famiglia, che è una crudeltà di cui forse non si accorgono. Ho sofferto per la solitudine di Natsuki, per la sua tenerezza nel voler perdonare comunque i familiari, e nel modo in cui i suoi occhi di bambina ci raccontano le inconsapevoli modalità di autodifesa rispetto al vuoto del mondo. L’ho detto prima, noi riusciamo da subito a leggere attraverso la sua illusione, vediamo nitidamente il dolore (e la sua origine) e comprendiamo come gli escamotage della magia, del non essere presente, di non vedere il mondo intorno non siano altro che una fuga da una situazione che dilania l’anima. C’è un accanimento quasi brutale su questa bambina da parte di una famiglia che non rappresenta per forza il male assoluto, ma la noncuranza. La superficialità e la piccolezza di riversare le proprie frustrazioni sul cuore altrui: una bassezza che si incarna perfettamente nelle figure femminili della madre e della sorella, che sembrano quasi ipù vicine alla matrigna e alle sorellastre di Cenerentola.
Questa sofferenza ha un contraltare nel rapporto d’amore tra Natsuki e Yu che fino a un certo punto è assolutamente puro: il loro è prima di tutto un bisogno di affetto, di cura, di accudimento laddove gli adulti falliscono vilmente nel loro ruolo.
La seconda parte ha un pathos totalmente diverso, ed è la conseguenza di tutto ciò che è stato messo in piedi all’inizio. Ora ci troviamo davanti a individui che non riescono, non vogliono o non possono stare nella società come verrebbe loro richiesto e cercano delle scappatoie per non essere disturbati, per poter vivere la propria vita senza dar fastidio a nessuno ma anche senza che nessuno dia fastidio loro.
E in questa strana apatia, che è un’apatia a metà, rimbomba la critica di Tomohiko verso una società che obbliga a occupare ruoli e attenersi a doveri nei confronti di persone che non se lo meritano.
La scelta finale, quella delle ultime pagine, è una conseguenza di questa volontà di allontanarsi dalla società che rappresenta a tutti gli effetti il rifiuto delle basi della convivenza. La soluzione adottata dai personaggi è un isolamento dal mondo, un tentativo di lasciarselo alle spalle, e anche laddove si arrivi al gesto sanguinario per antonomasia, non c’è mai una volontà attiva di proporre una resistenza e un effettivo cambiamento sociale. Ed è qui che con Murata io fatico: certo, in questa specifica situazione ci troviamo davanti a tre persone che sono prima di tutto vittime abusate dalla famiglia, che vivono profonde problematiche di salute mentale e che non hanno gli strumenti per agire nella società con più assertività. Ma la mia sensazione resta: sembra che nei suoi romanzi Murata voglia dirci che in fondo ribellarsi è inutile, cercare di cambiare le cose è inutile. Perché la macchina, la fabbrica sociale, è più potente e non lascia alcuna via di scampo.
L’unica soluzione, ci sembra dire, è ritirarsi dalla società rifiutandone le norme in maniera “alternativa”. Non si può fare nient’altro per cambiare le cose.
I Terrestri di Murata Sayaka è un romanzo che va letto perché è un romanzo che osa. È originale nella trattazione psicologica dei personaggi, ha grande cura nello sguardo che ci obbliga a seguire e, come ultimo elemento degno di menzione, pone particolare attenzione sui processi infantili di salvaguardia del proprio cuore.