Tra le escursioni che hanno lasciato una traccia forte nei miei occhi e romanticamente nella mia anima, c’è sicuramente il mio lungo weekend a Hiroshima. Se ben ricordo, avevo approfittato delle vacanze per la festa dell’Obon, durante il quale la scuola era chiusa, per fare quattro giorno fuori da Okazaki e dedicarmi a una città che da sempre sognavo di visitare.
La città della Pace
Hiroshima si trova a qualche ora di shinkansen da Nagoya, per cui era necessario avere un po’ più di tempo per poter visitare almeno in parte la città e lo splendore che è l’isola di Miyajima a mezz’ora di traghetto all’interno del golfo. Sono partita entusiasta (nonostante la compagnia questionabile) facendo scorrere davanti ai miei occhi immagini che ancora non avevo visto, fantasticando su cosa sarebbe stato vederne l’originale. Dopo un viaggio relativamente tranquillo (forse con un cambio a Kyoto, ma potrei anche sbagliarmi) sono finalmente arrivata alla meta, e poiché era già quasi sera mi sono diretta all’albergo che avevo prenotato qualche giorno prima, il Sunroute hotel nei pressi del parco della pace, un onesto e pulito albergo a tre stelle, con le camere incredibilmente grandi rispetto agli standard giapponese e una fantastica vista sul parco e sul museo della pace, e sul fiume che divide la città. In effetti a ripensarci, era un hotel più che onesto, per le mie abitudini era quasi signorile.
Nonostante il caldo che ovviamente non lasciava tregua e non faceva che marcare ulteriormente la fatica di qualsiasi spostamento, siamo uscite per fare un giro in una città che ancora non avevo intravisto, se non dai vetri del tram (bellissimo, con un sapore di antico, chissà perché) che dalla stazione ci ha portato direttamente davanti al parco. Pertanto ci siamo incamminate nel buio del rapido tramonto giapponese d’estate e in mezzo alle luci della città che incominciavano a puntellare gli edifici e le strade. Era ora di cena, e naturalmente la prima esigenza era quella di cercare un posto dove nutrirsi (fortunatamente senza troppo appetito).
Cosa aspettarsi da Hiroshima
Forse è necessario fare una premessa, per comprendere cosa è stato il mio primo incontro con Hiroshima. Quando si pronuncia questo nome, solo una cosa viene in mente: una tragedia, un crimine, un orrore. Uno torto che l’umanità ha fatto a se stessa. Viene in mente la morte. Si immagina di essere introdotti a una realtà dove la lugubre coltre della memoria ha imposto un silenzio, forse un lutto rispettoso e costante per quanto è successo. Ecco, forse è proprio questo. Quando si pronuncia il nome di Hiroshima si pensa di entrare in un mondo in lutto. E invece no. O meglio, per me no. Da quella sera (e forse ancora prima attraverso i vetri del tram) Hiroshima mi si è rivelata come una città viva, gioiosa, dinamica. Con un’effervescenza che corre al di sotto della superficie e che contagia, non so come, l’aria che si respira. Forse è naturale. Non ho mai avuto modo di visitare altri luoghi che portino una storia tanto dolorosa sulle spalle, e quindi mi viene molto difficile fare un confronto realistico e veritiero, ma può essere che proprio l’esperienza dell’orrore sia risultata un motore per creare un presente nel nome della vita.
[ctt template=”11″ link=”0bQNJ” via=”no” ]Quando si pronuncia il nome di Hiroshima si pensa di entrare in un mondo in lutto[/ctt]
La cupola della bomba atomica
Questo non vuol dire che i segni non siano rimasti, anzi: Hiroshima sembra essere una città che non ha alcuna intenzione di dimenticare o di nascondere la tragedia. Essa infatti è li, nel mezzo della città tra i grattacieli moderni, gli schermi pubblicitari e le luci al neon; ha la forma di una piccola costruzione di cemento in stile occidentale con la cupola in rame di cui rimane solo il famigerato scheletro. La cupola della bomba atomica, con la sua sagoma cadente eppure riconoscibilissima, è li, domina lo sguardo di chi si aggira nella zona, a eterna memoria di quell’ormai lontano giorno d’agosto. Eppure, camminando intorno al perimetro di questo fantasma, quel giorno non sembra così lontano; sembra di essere li, l’ora dopo, o il giorno dopo, nel silenzio che avvolge lo spazio e che mi sembra di poter immaginare dopo l’esplosione. Siamo a poca distanza dal luogo dell’esplosione. La cupola è tutto quello che della vecchia Hiroshima è sopravvissuto; sembra saperlo, in effetti, e sembra voler urlare (silenziosamente, è chiaro) a ogni visitatore, ad ogni abitante del luogo, del mondo forse, quello che lei, più di settant’anni fa, ha visto. Non con rabbia. Ma con profonda tristezza, quasi con la paura di non essere ascoltata.
Ho incontrato la cupola per la prima volta sulla mia strada verso l’hotel, quel pomeriggio, attraversando il parco della pace. L’ho intravista quella sera in mezzo alle luci della città. In quel turbinio di luci, la sua presenza è strana: è un monito doppio. In tutte queste luci, ricordatevi che io ho visto. E anche: nonostante quello che ho visto, guardate quante luci sono fiorite. La doppia possibilità della memoria e della rinascita, una quasi impensabile senza l’altra.
[ctt template=”11″ link=”9tkdo” via=”no” ]La doppia possibilità della memoria e della rinascita, una quasi impensabile senza l’altra.[/ctt]
Okonomiyaki, Hiroshima style
Quella sera, camminando alla ricerca di cibo, ci siamo ritrovati in un quartiere commerciale (quei classici tunnel giapponesi dello shopping, che esistono in ogni città nipponica), e alla in uno spiazzo tra la folla abbiamo trovato la meraviglia delle meraviglie: uno stand di street food, con tanto di tendine all’ingresso e posti a sedere al bancone, che proponeva agli affamati i meravigliosi okonomiyaki hiroshima-style. Ora, l’okonomiyaki meriterebbe un romanzo a sé. Quell’insieme di gusti che si sposano in bocca, dove il cavolo e la salsa danno vita al piacere assoluto. Gli okonomiyaki sono rinomati in tutto il giappone, e molte città hanno le loro varianti (una delle più famose è quella di osaka); a Hiroshima, l’okonomiyaki è preparato con l’impasto tradizionale, con la verza, e con l’aggiunta di noodles e carne (per chi la vuole). Il risultato è qualcosa di molto difficile da gestire per chi non è pratico di bacchette, ma di altrettanto godurioso, credo per chiunque abbia papille gustative (e fame in abbondanza!). Servito in quel locale in stile manga, con i cuochi che sfoggiavano la bandana bianca sulla testa, i fumi della piastra che si alzavano nel caldo della serata di agosto, e il freddo dell’acqua ghiacciata di accompagnamento, posso dire di essere entrata in un’altra dimensione.