Giunta a Okazaki, avevo istruzioni di chiamare la scuola di giapponese per farmi venire a prendere dalla navetta dedicata. Fatemelo ripetere. Dovevo parlare al telefono (per me già sforzo sovrumano), in Giapponese, dopo quelle che ormai erano 36 ore senza sonno. Immagino che per i giovani dentro questo non sia un problema. Per me si. Tutte le tre cose insieme combinate soprattutto.
Okazaki nel sonno
In qualche modo, sempre con le mie enormi valigie, mi sono trovata davanti a un telefono a gettoni, e sono riuscita a far capire alla gentile segretaria dall’altro capo della linea che ero arrivata, a pezzi e senza le sufficienti capacità linguiste per andare oltre un basico “ohayo gozaimasi, eki he tsukimashita.” Devo aver suscitato pietà sufficiente per convincerla a parlare in inglese, e per farle dire che un’auto sarebbe arrivata in cinque minuti. In effetti, in un tempo ancora minore, l’auto è arrivata, guidata da un insospettabile irlandese che non avrebbe parlato inglese neanche sotto tortura, che mi ha condotto alla scuola per presentarmi alla segreteria e per farmi dare le chiavi della stanza nella quale sarei state per le sei settimane successive. Qualsiasi cosa mi sia stata spiegata in quell’ora, è stata rimossa. Anzi è più corretto dire che non è neanche stata presa in considerazione. Ogni spiegazione veniva accolta da parte mia con un sorriso a 54 denti, mille inchini e mille “hai, wakarimashita”. Tutte menzogne, volevo solo svenire nel letto.
[ctt template=”11″ link=”0PNce” via=”yes” ]Ogni spiegazione era accolta con un sorriso a 54 denti, mille inchini e “hai, wakarimashita”. Tutte menzogne, volevo solo svenire nel letto @EmmezArt[/ctt]Sono arrivata nella mia stanza, se ben ricordo, nel primo pomeriggio. Il dormitorio, a dieci minuti a piedi dalla scuola, era l’unica soluzione rimasta (e naturalmente la più economica), poiché ovviamente le alternative dell’homestay e delle case private erano già finite da tempo. In fin dei conti è andata bene così. Il mio piano del dormitorio, esclusivamente femminile, era pulito e silenzioso (almeno all’inizio); la stanza obiettivamente piccolina era però linda e in qualche modo accogliente nella sua sobrietà. Il letto era duro, durissimo. Dopo aver verificato che il computer funzionasse, mi son buttata nel letto. Avrei dormito molto di più, ma la fame iniziava a farsi sentire, e la necessità di fare un minimo di spesa era impellente. Poiché nella stessa scuola erano già arrivate due ragazze dell’università (conosciute solo in funzione della partenza), sono stata condotta da loro a fare la spesa nel più vicino Daiso, un supermercato dove tutto è a 100 yen. Oltre a qualche nutrimento base, ho recuperato quanto avevo dimenticato (o rotto) nel tragitto, e ancora drogata di sonno e caldo mi sono diretta nuovamente verso il letto. La mia socialità, già di norma a livelli sotto la media, deve essere stata davvero poco coinvolgente in quel momento.
Le mie prime 48 ore in Giappone
Per fortuna, tra il mio arrivo e l’inizio delle lezioni avevo qualche giorno di tempo.
Devo confessare che le prime 24/48 ore in terra nipponica sono state, fisicamente e mentalmente, un disastro; la stanchezza non passava (chiaramente il fuso orario faceva il suo), il caldo era ingestibile, non avevo fame (e quindi non mangiavo) e la frustrazione per la lingua non aveva mai raggiunto picchi maggiori. Un’altra cosa ha reso il mio arrivo in giappone strano, un odore. Ancora oggi non so di cosa si tratti, è un odore dolciastro che sembra impregnare le pareti delle case, e muoversi nella calda aria estiva. È un odore che ho sentito di nuovo, ma solo durante la stagione calda, un odore misto forse di carta di riso, o di legno, o forse di tutt’altro. Non so proprio dire. Ora lo ricordo con emozione. Sul momento, non mi aiutava nel riprendere le energie, perché si insinuava nel cervello e copriva ogni altro odore di cibo.
[ctt template=”11″ link=”Uecj8″ via=”yes” ]Devo confessare che le prime 24/48 ore in terra nipponica sono state, fisicamente e mentalmente, un disastro. @EmmezArt[/ctt]Il terzo giorno, dopo il test di livello (sempre una di quelle esperienze che uccidono l’autostima), sono risorta, anche io. Oltre alle due ragazze italiane, ho iniziato a scambiare qualche parola con altri esseri viventi, e ho mangiato per la prima volta un pasto vero, nel bar di fronte alla scuola (ho ancora negli occhi i tavoli, i banconi di legno, e il fantastico cameriere giovane e alternativo con i capelli lunghi). Il mio primo vero pranzo in Giappone è stato un piatto di pasta all’arrabbiata. Imbarazzante. Buono. Salvifico. Da li, la mia storia d’amore è stata quasi senza sobbalzi.
E finalmente ho potuto godermi Okazaki
Nei giorni successivi la vita quotidiana ha preso in fretta la sua forma; mattina sveglia presto, inizio delle lezioni alle 9, fino al primo pomeriggio, e resto della giornata per compiti e scoperte dei dintorni. Mi ci è voluto qualche tempo per abituarmi all’insegnamento esclusivamente in giapponese, non tanto perché non capissi (gli insegnanti, sostengo ancora oggi, erano dei maghi), ma perché non riuscivo ad esprimermi come avrei voluto, e mi arrotolavo tra vocaboli sconosciuti e frustrazione più che familiare. Per fortuna l’essere umano è fatto di adattabilità, e nel giro di una settimana la frustrazione ha lasciato il posto alla sfida. Piccoli passi, piccole frasi verso il dominio della lingua.
Anche le relazioni sociali hanno fatto in fretta a migliorare, da un lato grazie alle due ragazze che già conoscevo, e dall’altro grazie al colpo di fulmine con la mia vicina di stanza, con cui abbiamo iniziato un’intensa amicizia che, nonostante la distanza geografica, dura ancora oggi. E’ stata la più divertente compagna di esplorazione che mi potesse capitare, forse la più divertente che abbia mai avuto.
Naturalmente l’esplorazione è iniziata da quanto avevamo di più vicino: Okazaki e Nagoya.
E’ davvero difficile riportare alla mente quelle sensazioni e quelle immagini; in fondo sono state le mie prime visioni in Giappone, i primi panorami, i primi odori.. e tuttavia è passato davvero tanto tempo, e quello che mi resta sono appunto solo sensazioni.
Okazaki mi ha accolto con l’estate, con il caldo e le cicale che incessanti risuonavano nell’aria.
Nonostante tutto, nonostante i viaggi successivi e le esperienze più ricche e profonde che ho avuto dopo, per me il Giappone è ancora questo: caldo, cicale e silenzio. È un’immagine che riesco a far rivivere dentro di me in un secondo, semplicemente ripensando al tragitto dal dormitorio alla scuola, o dal supermercato al dormitorio, per riuscire a recuperare quelle sensazioni e sentire la malinconia nel cuore dello stomaco.