Buongiorno e ben tornati nella tana della volpe! Continuano le nostre chiacchere sui libri, e oggi vi racconto qualcosa su Pyongyang Blues, nonfiction di Carla Vitantonio pubblicato da Add Editore, e selezionato nel nostro bookclub “Asiatica” al Circolo dei Lettori di Torino.
L'autrice
Di Carla Vitantonio sono profondamente innamorata. Ironica, acuta, divertente: ha trascorso 4 anni in Corea del Nord, altri due in Myanmar e ora risiede a Cuba. Cooperante, attivista per i diritti civili e attrice, per Add ha pubblicato anche Myanmar Swing.
Dal libro Pyongyang Blues è nato un podcast, che vi consiglio di cuore.
La partenza
Allora di che cosa parla Pyongyang blues? Ve lo racconterei così.
È un resoconto di quattro anni di vita in Corea del Nord, in particolare in Pyongyang, con tutta la confusione che questa esperienza genera all’interno di un osservatore esterno. In particolare, Carla è stata a Pyongyang dal 2012 al 2016: un periodo allo stesso tempo breve ma sufficiente a farsi una qualche idea del posto. Nella sua narrazione ci restituisce vari episodi, varie esperienze, vari ricordi, varie sensazioni di cosa è stato vivere in Corea del Nord.
Come dicevamo durante il book club, questa narrazione non è mai un cammino lineare, del tipo: “Sono partita, ho fatto questo, poi nel tempo è successo questo”, come se fosse una storia. Come se volessimo dare una finalità anche alla narrazione. Siamo davanti a un resoconto che è sempre – passatemi il termine – “saltellante”: tante finestre sulla quotidianità che non per forza ci restituiscono un senso di continuità.
Lo dico in senso positivo, perché questo modo di raccontare la Corea ha avuto (almeno come lettrice) un suo senso molto importante.
Carla inizia raccontando nelle prime pagine il suo perché: perché la Corea del Nord? È una ragione piuttosto personale, e la porta a Pyongyang come insegnante di italiano. Queste prime pagine di Pyongyang blues sono incredibilmente efficaci nel raccontarci l’alienazione all’arrivo in questo paese misterioso, minaccioso e a tratti quasi inquietante. Carla ci racconta “sono partita con un mix di curiosità e di terrore addirittura con una frase segreta da scrivere ai miei amici se qualcosa fosse andato storto. Le tartine sono buone”.
L’arrivo in Corea coincide con alcune esperienze stranianti: il controllo del computer, il controllo delle proprietà, il ritiro del telefono personale, la necessità di comprare un telefono che funzionasse con le linee coreane (e solo con quelle) e poi l’incontro con quello che lei chiama il “coreano personale”, il signor Kim, preposto dall’università per accompagnare (e controllare) Carla nella sua vita a Pyongyang.
Quello che vediamo all’inizio è un percorso in cui Carla non viene mai interamente integrata in mezzo agli altri nordcoreani, ma vive sempre insieme agli altri stranieri. Dal luogo della sua abitazione (il Bulgarian, enorme struttura dove vivono tutti gli stranieri) ai negozi che può frequentare, Carla è sempre “fuori”. Gli stranieri in Corea del Nord, in particolare a Pyongyang, hanno una libertà d’azione e di movimento molto limitata, e si spostano sotto il controllo costante di un soggetto di riferimento.
La creazione della tradizione
Mentre la vita trascorre, Carla ci riporta alcune esperienze quotidiane che per noi sono motivo di sorpresa, come il razionamento dell’acqua e quindi la necessità di stivare l’acqua nel caso dell’emergenza. Si tratta di una quotidianità fatta di contraddizioni, di difficoltà, soprattutto di adattamento e di una costante ansia che qualcuno sia lì in agguato o a guardare. E non è certo questo il luogo o il momento per raccontarvi riga per riga l’intero libro altrimenti vi priverei di un piacere e di un divertimento unici.
Ci sono però due riflessioni che vorrei portare, per meglio apprezzare il testo. La prima, che Carla sottolinea spesso, è l’importanza della ritualità condivisa e dei miti contemporanei, all’interno dell’Ideologia Nazionale e all’interno quindi del funzionamento stesso del regime.
In occasione di alcune feste particolari, l’autrice ci riporta la sua onesta emozione, e la percezione di essere parte di un enorme organismo vivente. Da qui, la sua comprensione (almeno in parte) per la resistenza e la persistenza di diverse pratiche e di un’enorme produzione di riti relativa alla famiglia del presidente Kim.
Legata a questa invenzione della tradizione, emerge una seconda riflessione: questo regime non è basato esclusivamente sul terrore, sulla coercizione e quindi sulla violenza e sulla paura. Potrebbe essere una riflessione banale, ma per i più la Corea del Nord è sinonimo di impero del male. Eppure, Carla vede qualcosa di centrale qui: se questo regime si basasse o si fosse basato solamente sul terrore probabilmente non avrebbe potuto durare così a lungo. Più verosimilmente, accanto alla repressione pura, c’è un misto di appartenenza a una mitologia nazionale che vede la Corea del Nord come piccolo Paese “sfortunato” in mezzo a blocchi di potere molto più forti, che nonostante questo riesce a sopravvivere nell’0ttica di una completa liberazione della Corea sotto il controllo del Nord.
Si tratta di una narrazione importante, narrazione a cui aderisce – consapevolmente o meno – buona parte della popolazione che l’autrice incontra.
Questo non vuole dire che la situazione sia serena, tant’è che durante tutto il racconto vengono messi in evidenzia dei momenti significativi e toccanti: per esempio, i suoi studenti vorrebbero raccontare in altri termini, raccontare altre cose, aprirsi a un orizzonte che non è solo quello locale coreano e cercano quindi in lei una finestra verso l’esterno, finestra che non sempre è possibile vedere appieno.
L'umanità, nonostante tutto
L’altro elemento di riflessione che Carla ci porta è quello dell’umanità. Come per qualunque altro luogo, non si può parlare di un “popolo nordcoreano”: anche qui ci sono le individualità, le persone, i singoli, con i propri desideri, le proprie aspirazioni, con le proprie bassezze. È un’umanità che traspare attraverso la sua esperienza come insegnante di italiano, un’umanità che ha ancora voglia di scoprire, di confrontarsi, di incontrarsi.
Ci sono tanti volti, lontani eppure più affini e universali di quanto si potrebbe pensare. Carla ci offre uno spaccato, certamente “limitato” nel tempo e nello spazio, in cui la quotidiana è altro da quello che immaginiamo noi.
Una quotidianità di cui l’autrice stessa si innamora, una città – Pyongyang – di cui ci dice “per me era bellissima”. In questo coinvolgimento emotivo, riusciamo a capire meglio l’umanità dietro al muro di paura e di propaganda.
E in qualche passaggio del libro, l’autrice mette a nudo il nostro problema con la Corea del Nord: la Corea del Nord per noi è il nemico, con questo paese non si riesce ad avere un rapporto equilibrato e lucido. O si è pro o si è contro e noi, in particolare per essere persone “buone“, dobbiamo essere contro.
Questo ci dice molto di quanto possiamo davvero conoscere della Corea del nord, e ci dice molto anche del nostro rapporto con un mondo che in fin dei conti è per noi un buco nero.
In ultimo siamo rimasti con una domanda: “sì, ma alla fine che cosa abbiamo capito di questo posto?” ed è una domanda che sembra così fuori luogo ma in realtà non lo è. Anche attraverso il suo stile letterario e la sua potente ironia, Carla Vitantonio ci racconta la Corea del Nord (e in particolare Pyongyang) con un’onestissima confessione finale: “io di questo paese non ho capito niente”. Non credo sia semplicemente una forma di umiltà rispetto a un paese che in effetti presenta enormi difficoltà, e in cui non si ha vissuto una vita intera. Credo voglia anche trasmetterci un’impossibilità – per uno straniero occidentale – di entrare e comprendere fino in fondo la vita, la tradizione, l’esistenza, il vissuto di questo mondo.